2009 – Una pienezza di vita - Centro Culturale Jacopo Lombardini


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2009 – Una pienezza di vita

Nel 1978 lavoravo da poco tempo in IBM.
Un giorno, davanti alla mensa interna, vidi uno che distribuiva volantini sindacali. Presi il volan-tino e gli chiesi: "Cosa devo fare per iscrivermi al sindacato?" Lui sbarro' gli occhi, fece cadere il pacco di volantini e mi chiese per favore di ripetere quel che avevo detto. Mi confessò poi che non gli era mai successo nulla del genere in tutta la sua vita in IBM.
Per farla breve, Paolo mi iscrisse al sindacato e nel giro di pochi mesi mi condusse al Lombardi-ni.
Credo di averlo amato fin dal primo giorno, il Lombardini: la porta sempre aperta per chiunque desiderasse venire; valdesi, metodisti, cattolici, evangelici, luterani, battisti, ebrei, musulmani, atei, agnostici, tutti insieme ecumenicamente a cercare di rendere la vita migliore per gli altri e per sé stessi; operai e impiegati, intellettuali, insegnanti e tecnici, che collaboravano per raggiun-gere lo stesso obiettivo; la scuola serale; il circolo culturale; gli studi biblici; il gruppo delle don-ne; la comune; le gite a Agape; gli stranieri che venivano a visitarci e quelli che iniziavano a ar-rivare in Italia, allora quasi sempre come rifugiati politici, bisognosi di assistenza, comprensione, aiuto.....
Pur non essendo religiosa, ricordo che pensai che il mio incontro con Paolo fosse un segno della provvidenza o della predestinazione: il mio primo esame, ai tempi dell'università, era stato sulle cosiddette eresie medievali e io avevo scelto di preparare una tesina sui valdesi, e ne ero rimasta affascinata.
Ora i valdesi entravano davvero nella mia vita, offrendomi la possibilità di fare qualcosa di nuo-vo e utile.

La scuola serale

Iniziai insegnando alla scuola serale. L'unica scuola al mondo dove gli insegnanti, per insegnare, dovevano pagare anziché essere pagati: erano a carico degli insegnanti, infatti, l'acquisto, oltre che la preparazione, del materiale didattico e di tutto quello di cui gli allievi avevano bisogno per seguire e imparare le lezioni.
Insegnai dapprima inglese per un paio d'anni, e poi storia per molti anni, nella classe dei "giova-ni" (così chiamata per distinguerla dalla classe degli "adulti", dove pure ho insegnato, ma solo quando le due classi si sono fuse, alla fine degli anni '80): ogni due anni una ventina scarsa di ra-gazzi tra i 15 e i 18 anni si iscrivevano per prepararsi con noi per l'esame di terza media.
Erano ragazzi che vivevano e lavoravano in un ambiente in cui la legge che concedeva ai lavora-tori 150 ore pagate per lo studio non poteva che mostrare la corda: non era possibile ottenere 150 ore per studiare da parte di ragazzi che, quasi tutti, lavoravano in nero e precariamente, sfruttati in bar, negozi, mercati, fabbriche e fabbrichette, molti di loro intelligenti, volonterosi, desiderosi di riscatto, alcuni cacciati da tutte le scuole della repubblica, altri già con gravi problemi, taluni completamente abbandonati a sé stessi.
Ma tutti, in realtà, avidi di attenzione, comprensione, comunicazione, come lo sono sempre i ra-gazzi di quell'età.
Non era facile riuscire a insegnare loro qualcosa: qualunque informazione, qualunque nozione passava prima attraverso la costruzione di un legame di reciproco affetto.
Solo dopo essere stati accettati - e averli accetti - come persone, si poteva sperare di riuscire, con grande fatica, a fornire quel piccolo bagaglio di cultura indispensabile a superare, da privatista, l'esame per ottenere la licenza di terza media.
Non eravamo mai un solo insegnante in classe, normalmente eravamo in due, talvolta anche tre, per essere sicuri che anche in caso di ferie o malattia ci fosse sempre almeno un insegnante di-sponibile. E anche perchè insegnare da soli, dopo una normale giornata di lavoro, a una ventina di diavoli scatenati sarebbe stato davvero al di là delle possibilità fisiche e psichiche di chiunque, ancorchè giovane e forte!
Preparavamo noi stessi tutto il materiale didattico: impiegavamo almeno un giorno intero, in due o tre, per predisporre due ore di lezione.
E ci inventavamo le cose più incredibili per interessare e appassionare i ragazzi.

Un modo originale di studiare la storia

Franca Bezzi, che faceva l'insegnante di professione e da cui ho davvero imparato tantissimo, per molti anni ha insegnato storia nella classe dei "giovani", insieme a me e a un gruppetto di altri coraggiosi volontari.
Ricordo l'anno in cui insieme abbiamo preparato un corso di storia basato sulla musica.
Con l'aiuto di due amici, Enrico e Gianni, detto Raimondo o l'Ingegnere, che erano bravi chitarri-sti e esperti di musica, abbiamo costruito una serie di lezioni, dove, per insegnare la storia, si par-tiva dall'ascolto e dall'analisi della musica di un periodo (i blues e il jazz per la tratta e la schiavi-tù dei negri, le canzoni popolari per l'800, le canzoni della prima guerra mondiale, il rock&roll per gli anni della guerra fredda ecc.). Dopo due ore di musica e canti, inquadravamo il periodo, abbinando la musica ascoltata agli avvenimenti sociali, culturali, economici e politici.
Un anno abbiamo preparato un corso di storia economica, dal medioevo ai giorni nostri.
Ricordo che per far capire la legge della domanda e dell'offerta e l'elasticità della domanda ave-vamo organizzato una specie di gioco a quiz. Io strillavo: "se il prezzo delle scarpe aumenta, la domanda di scarpe aumenta o diminuisce?" oppure: "se l'acquisto delle scarpe aumenta, il prezzo delle scarpe aumenta o diminuisce?" e a chi rispondeva giusto veniva regalato un premio (se non ricordo male, una banalissima caramella).
Ogni tanto, alla fine delle lezioni, alle 10 di sera, andavamo a mangiare il gelato insieme ai ra-gazzi, d'estate.
O a giocare al biliardo, d'inverno. Non ero una stecca disprezzabile - mi era addirittura stato of-ferto di entrare in una squadra di biliardo femminile e partecipare al campionato italiano - ma i ragazzi mi battevano sempre, sia pure di strettissima misura; e questa mia abilita', penso, era uno dei pochi motivi, forse l'unico, per cui ero apprezzata da loro.
Alcuni di questi ragazzi li abbiamo seguiti poi per molti anni, hanno continuato a venire a trovar-ci, hanno confidato in noi.
Alberto, per fare un esempio, uno della mia prima classe di inglese (trent'anni fa!): ancora adesso che è un posatissimo padre di famiglia e che lavora in una fabbrica vicino a dove oggi abito, quando mi incontra mi saluta con molto affetto e simpatia.
Ma ricordo che era un ragazzo posatissimo e determinato anche allora!
Altri, purtroppo, si sono persi, per noi e per la vita.
La scuola, che per me è stata un'incredibile fonte di scoperte, lezioni, ansie, divertimento, gioie, e' stato il mio impegno primario al Lombardini. Ma anche se non mi sono mai occupata delle al-tre iniziative in modo altrettanto intenso, partecipavo comunque a quasi tutte le attivita'.
C'era il circolo culturale - dove relatori di diversa provenienza, dai nomi piu' famosi (Vacca, Bocca, Magri.......) a quelli meno noti, venivano da noi a Cinisello per affrontare le piu' svariate tematiche, anche in cicli di lezioni pubbliche di grandissimo successo; c'erano gli studi biblici e il gruppo delle donne - troppo spesso in giorni e orari in cui ero gia' impegnata in altro; c'erano le gite a Agape; c'erano le relazioni da intrattenere con il mondo protestante europeo (dove il mio contributo era dato soprattutto dalla mia conoscenza delle lingue)...

La comune

Ma sopra a tutto, c'era la vita alla comune.
Andai a abitarci nel 1980. Me lo propose Paolo e, dopo aver esitato per un po', accettai. Mi con-vinsi che era il modo giusto per conciliare lavoro, impegno sociale e vita privata, per conquistare le risorse e il tempo necessari a tener dietro a tutto quello che volevo fare.
Ma la comune era molto, molto di piu'.
Certo non era facilissimo vivere tutti insieme, cosi' tanti, tutti speciali, intelligenti ma suscettibili, con caratteri non sempre compatibili, con culture, provenienze, idee diverse.
Ma il fatto di avere tutti la stessa tensione etica, teorica e pratica, consentiva di superare alla fine tutte le differenze: si discuteva di tutto e su tutto, ma alla fine si facevano scelte e si realizzavano progetti.
Raramente ho visto un gruppo che fosse tanto efficiente nella realizzazione delle sue decisioni.
Incredibile quanto riuscivano a fare una ventina di persone, tutte che lavoravano, tutte impegnate anche in altro, nella famiglia, nella chiesa, nel sindacato, nel partito, nell'amministrazione pub-blica...
Favoriva la convivenza e l'efficienza il fatto che ciascuno avesse i suoi spazi privati, la sua stanza o il suo appartamento, e, per il buon funzionamento della baracca, il fatto che l'organizzazione fosse teutonica e spartana: ciascuno responsabile di un progetto, di un'attivita', di un program-ma... e ciascuno a turno responsabile della spesa, del pranzo o della cena, della presenza nei we-ek-end...
Io ero di turno -come cuoca- il sabato a mezzogiorno, l'unico giorno in cui potevo, a causa degli impegni di lavoro.
Insieme a Silvia, prima, a Silvano, poi, e a Mariella, alla fine, cucinavo per piu' di venti persone.
E mi faccio un vanto ancora adesso del fatto che i nostri pranzi fossero i piu' apprezzati della set-timana, quelli a cui partecipavano piu' persone.
Mi ero fatta una fama di ottima cuoca (io, che quando ero andata alla comune non sapevo neppu-re cucinare un uovo sodo!) e un'ottima ospite, anche se un po' insofferente e indisponente: men-tre cucinavo, non sopportavo nessuno in cucina, ma soprattutto cantavo a squarciagola brani liri-ci (Libiamo, libiamo... Freude, schoene Goetterfunken... La' ci darem la mano...) con la mia voce notoriamente stonata, tanto che il Piro, quando arrivava, si affrettava a chiudere la porta della cu-cina per la disperazione.
Ma preparavo sempre un aperitivo, prima del pranzo, e i miei primi piatti - insieme ai secondi di Silvia, Silvano e Mariella - venivano divorati anche dalle persone piu' schizzinose della comune, anche da quelle eternamente a dieta.
Ma la cosa piu' bella erano le serate.
Dopo le 10 di sera, una volta terminate le attivita' scolastiche, chi era interessato sapeva che ba-stava andare nella grande sala comune per trovare comunardi, ospiti e amici radunati davanti a una tisana o a un bicchiere di vino o di grappa, secondo i gusti, pronti a chiacchierare, polemiz-zare, discutere, principalmente di politica, ma in effetti di qualunque argomento possibile e im-maginabile.
E anche a suonare e cantare fino alle ore piccole, fino a quando Sileno, che abitava al piano di sotto nel condominio, non cominciava a battere sul soffitto con la scopa, per farci smettere. O fi-no a quando Daniele non decideva che ci voleva una spaghettata e andava in cucina a prepararla.

Gli amici

Quanti amici ho trovato, alla comune e tramite la comune!
Adriano e Silvia, Gino e Mariella, Floriana, che vedo tuttora molto di frequente e che sono tra i miei piu' cari amici.
Paolo, a cui saro' sempre grata, e Marcella, la persona piu' dolce del mondo.
Marco, che raccomandava sempre a tutti di stare fermi e di stare calmi, e Roberta, sempre in mo-vimento, sempre agitata, sempre impegnata a fare qualcosa.
Nicola, Manuele e Davide, che sul tavolone della comune costruivano col lego improbabili a-stronavi per improbabili guerre stellari.
Maria, che aveva bisogno di cinque sveglie per alzarsi al mattino.
Enrico e Manfredo, sempre dietro a polemizzare tra loro.
Giorgio, che durante le piu' impegnative e ponderose riunioni stirava le sue camicie (e sapeva sti-rare molto meglio di me!)
Sara, che gattonava per le stanze della comune, calpestate da decine e decine di piedi, fissandoti con i suoi enormi occhioni, e Simone che dormiva serafico sul divano tra le braccia del suo papa' addormentato.
Vittorio, il Presidente!
Felicia, che mi viziava come la mia mamma.
Gianni.
Andrew, che era abituato a mangiare le cavallette ma si schifava all'idea di mangiare lumache e rane.
Erkan e Aysel, con la loro travagliata storia, e tutti i curdi, in fuga dai loro paesi sempre in guer-ra...
Tiziana, Lilli e Velco, Pietro e Elda, Panco e Vanna.
I pastori metodisti americani, che - astemi e ferocemente anti-alcoolici - sconvolti dalla scoperta che in Italia alla santa cena il vino si beveva davvero, finivano col cedere al fascino dell'alcool e coll'ubriacarsi con un paio bicchieri (l'orrido vino della comune!) a pasto...
Il pastore anglicano di Cuba.
Tutti i pastori protestanti tedeschi, incontrati nei convegni in Germania, a cui io (cattolica di ori-gine e agnostica di elezione) partecipavo come rappresentante del Lombardini...
Gli operai francesi degli incontri bilaterali tra lavoratori italiani e francesi, a Pinerolo, Parigi, Sè-te...
... e tanti, tanti altri........
Anche Gigi, alla fin della fiera, l'ho incontrato tramite la comune.
Nel 1987 lasciai la comune e andai a abitare a Milano, in una casa mia.
Per svariati motivi mi sembrava che quella del Lombardini fosse un'esperienza ormai esaurita, per me.
Moltissimi dei comunardi con cui avevo condiviso la mia ormai quasi decennale esperienza se n'erano andati o stavano per andarsene. Con i nuovi arrivati, molti di loro ormai parecchio più giovani di me, non ritrovavo la stessa sintonia: i ragazzi cresciuti nel riflusso, anche se molto bravi, erano molto diversi da noi, cresciuti con la marea del '68.
Mi sentivo un'estranea, in quei luoghi che erano stati casa mia per molti anni.
Cosi', me ne andai, pur continuando a insegnare alla scuola serale per alcuni anni ancora.
Quando, agli inizi degli anni '90 e dopo più di 12 anni di onorata attività, anche la scuola serale esaurì la sua forza attrattiva per me (e non solo per me, ahime'), mi ritrovai senza più niente per le mani che rendesse la vita ragionevolmente sopportabile, e mi misi in caccia di qualcos'altro.
Dal 1994 sono rappresentante sindacale in IBM - ebbene sì, sempre lei, sempre lì lavoro - e in questi ultimi quindici anni mi sono immolata per il bene dei lavoratori metalmeccanici.

Ma questa è un'altra storia.

Valeria Bernardi


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